Note inedite su copyright e copyleft (2005) di Wu Ming (*) |
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.:Inviato Venerdì, 11 novembre 2005 @ 19:47:59 da titiro |
 1. I due corni del falso dilemma
2. Nascita del copyright e censura: contro il "mito delle origini" liberista
3. Google Print e affini: rete, gratuità e battaglie di retroguardia1. I due corni del falso dilemma
Partiamo dalla fine: il copyleft si basa sulla necessità di coniugare
due esigenze primarie, diremmo due condizioni irrinunciabili del
convivere civile. Se smettiamo di lottare perché si soddisfino questi
bisogni, smettiamo di auspicarci che il mondo migliori.
Non vi è dubbio che la cultura e i saperi debbano circolare il più
liberamente possibile e l'accesso alle idee dev'essere facile e
paritario, senza discriminazioni di censo, classe, nazionalità etc. Le
"opere dell'ingegno" non sono soltanto prodotte
dall'ingegno, devono a loro volta produrne, disseminare idee e
concetti, concimare le menti, far nascere nuove piante del pensiero e
dell'immaginazione. Questo è il primo caposaldo.
Il secondo è che il lavoro deve essere retribuito, compreso il lavoro
dell'artista o del narratore. Chiunque ha il diritto di poter fare
dell'arte e della narrazione il proprio mestiere, e ha il diritto di
trarne sostentamento in un modo non lesivo della propria dignità.
Ovviamente, siamo sempre nel campo delle condizioni auspicabili.
E' un atteggiamento conservatore pensare a queste due esigenze come ai
corni di un dilemma insolubile. "La coperta è corta", dicono i
difensori del copyright come lo abbiamo conosciuto. Libertà di copia,
per costoro, può significare solo "pirateria", "furto", "plagio", e
tanti saluti alla remunerazione dell'autore. Più l'opera circola
gratis, meno copie vende, più soldi perde l'autore. Bizzarro
sillogismo, a guardarlo da vicino.
La sequenza più logica sarebbe: l'opera circola gratis, il gradimento
si trasforma in passaparola, ne traggono beneficio la celebrità e la
reputazione dell'autore, quindi aumenta il suo spazio di manovra
all'interno dell'industria culturale e non solo. E' un circolo
virtuoso.
Un autore rinomato viene chiamato più spesso per presentazioni (a
rimborso spese) e conferenze (pagate); viene interpellato dai media
(gratis ma è tutto grasso che cola); gli si propongono docenze
(pagate), consulenze (pagate), corsi di scrittura creativa (pagati); ha
la possibilità di dettare agli editori condizioni più vantaggiose. Come
può tutto questo... danneggiare le vendite dei suoi libri?
Parliamo ora del musicista/compositore: la musica circola, piace,
intriga, intrattiene; chi l'ha scritta o chi la esegue ne ha un
"ritorno d'immagine", e se sa come approfittarne viene chiamato a
esibirsi più spesso e in più occasioni (pagato), ha la possibilità di
incontrare più persone e quindi più committenti, se "si fa un nome" gli
si propongono colonne sonore di film (pagate), serate come DJ (pagate),
"sonorizzazioni" (pagate) di eventi, feste, mostre, sfilate; può
addirittura trovarsi a dirigere (pagato) un festival, una rassegna
annuale, cose del genere; se parliamo di artisti pop, mettiamoci anche
i proventi del merchandising, come le T-shirt vendute via web o ai
concerti...
Ecco il "dilemma" risolto nei fatti: si sono rispettate le esigenze dei
lettori (che hanno avuto accesso a un'opera), degli autori/compositori
(che ne hanno avuto ritorni e tornaconti) e di tutto l'indotto della
cultura (editori, promoter, istituzioni etc.).
Cos'è successo? Perché il sillogismo è franato in modo tanto repentino
sotto i colpi degli esempi? Perché tale sillogismo non mette in conto
la complessità e la ricchezza delle reti e degli scambi, il passaparola
incessante da un medium all'altro senza soluzione di continuità, le
possibilità di diversificazione dell'offerta, il fatto che il "ritorno
economico" per l'autore può percorrere diversi tragitti, alcuni
(apparentemente) tortuosi.
E' a causa di questa incapacità di figurarsi la complessità che
l'industria culturale (soprattutto quella discografica) ha perso i
primi cinquanta treni dell'innovazione telematica, vivendo le nuove
opportunità tecnologiche come minacce anziché come sfide, reagendo in
modo scomposto a Napster e a tutto quello che è seguito. Cominciano a
muoversi adesso, a cavalcare la tigre dopo che Steve Jobs ha dimostrato
che si può fare, ma nel frattempo sono andati allo scontro con eserciti
di potenziali clienti, la cui fiducia è persa per sempre.
Anti-marketing.
Qual è l'ultima cosa che dovrebbe fare uno che produce e vende musica?
Sicuramente criminalizzare chi li ascolta, trascinare in tribunale chi
la ama etc. Ne valeva la pena? Secondo noi no.
Il "diritto d'autore" (attenzione, però, a non prendere sul serio
quest'espressione semi-truffaldina!) come lo abbiamo conosciuto è ormai
un freno al mercato.
Al contrario, il copyleft (che non è un movimento né una "ideologia", è
semplicemente il vocabolo-ombrello per una serie di pratiche, istanze e
licenze commerciali) incarna tutte le esigenze di riforma e adeguamento
delle leggi sul copyright, in direzione di uno "sviluppo sostenibile".
La "pirateria" è endemica, è irreprimibile, è marea montante portata
dal vento dell'innovazione tecnologica.
Certo, i potentati dell'industria dell'intrattenimento possono
continuare a far finta di niente, come la Casa Bianca ha fatto finta
che non ci fossero effetto-serra, riscaldamento globale e
sconvolgimenti climatici in corso. In entrambi i casi, chi nega la
realtà verrà travolto. Ostìnati a non ratificare il Protocollo di
Kyoto, ostìnati a non investire su fonti energetiche rinnovabili e
alternative al petrolio, ostìnati a non voler risolvere i problemi
ambientali, e prima o poi t'arriva tra capo e collo l'uragano Katrina
(e ce n'est qu'un debut!).
2. Nascita del copyright e censura: contro il "mito delle origini" liberista
Torniamo all'ABC, mettendo in fila fatti noti e più volte ricordati. La
storia del copyright comincia in Inghilterra nel XVI° secolo. La
diffusione della stampa, la possibilità di distribuire tante copie di
uno scritto, galvanizza chiunque abbia qualcosa da dire, soprattutto di
politico. C'è un boom di pamphlet e giornali. La Corona teme la
diffusione di idee sovversive e decide di affidare a qualcuno il
controllo di quel che si stampa.
Nel 1556 nasce l'ordine degli Stationers [editori-tipografi-librai],
casta professionale a cui viene concesso in esclusiva il "diritto di
copia" [copy right],
quindi ha il monopolio delle tecnologie di stampa. Chiunque voglia
stampare qualcosa deve passare al loro vaglio. Fino a quel momento era
diverso, chiunque poteva farsi stampare copie di un'opera letteraria o
teatrale, l'autore non si preoccupava perché non deteneva i diritti
(che non esistevano), la cosa importante era che le opere circolassero
e aumentassero la fama dell'autore, che in quel modo avrebbe
intercettato i desideri di più committenti (mecenati privati, enti
culturali di vario genere come teatri etc.) Da lì in poi, invece,
un'opera potrà andare in stampa solo se otterrà il visto (in pratica,
il placet della censura di stato) e sarà segnata sul registro ufficiale
- attenzione a questo dettaglio! - a nome di uno stationer.
Quest'ultimo diverrà il proprietario dell'opera nell'interesse dello stato.
Tutta la mitologia "liberista" sul copyright come diritto naturale, che
nasce spontaneamente grazie alla crescita e alle dinamiche del
mercato... sono tutte fandonie! L'origine remota del copyright sta
nella censura preventiva e nella necessità di restringere l'accesso ai
mezzi di produzione della cultura (leggi: restringere la circolazione
delle idee).
Trascorre un secolo e mezzo e in questo periodo l'autorità della Corona
subisce attacchi inauditi: la ribellione scozzese del 1638, la "Grande
Rimostranza" parlamentare del 1641, lo scoppio della guerra civile
nell'anno successivo, la rivoluzione di Cromwell con tanto di
decapitazione del re... Alla fine degli anni cinquanta del XVII° secolo
nel Paese torna la monarchia, ma la situazione rimane instabile e
finalmente il Parlamento riesce a imporre alla Corona una Dichiarazione
dei diritti. Da quel momento, la monarchia inglese sarà una "monarchia
costituzionale".
Era necessario elencare questi eventi per far capire quanto si
modifichi, in centocinquant'anni, l'atteggiamento nei confronti del
sovrano, quindi anche della censura preventiva, e di conseguenza anche
del potere degli stationers. Nei confronti di questi ultimi c'è sempre
più insofferenza, così si decide di abolire il monopolio sul diritto di
stampa.
Gli stationers verrebbero colpiti dove fa più male, cioè nel
portafogli, quindi reagiscono con rabbia. Iniziano a fare pressioni
perché l'imminente nuova legge riconosca i loro legittimi interessi e
si volga comunque a loro vantaggio. Ecco la nuova argomentazione: il
copyright appartiene all'autore; l'autore, però, non possiede macchine
tipografiche; tali macchine le possiede lo stationer; ergo: l'autore
deve comunque passare attraverso lo stationer. Come regolare tale
"passaggio"? Semplice semplice: l'autore, nel proprio interesse a che l'opera venga stampata, cederà il copyright allo stationer per un periodo da stabilirsi.
Alla foce, la situazione resta più o meno invariata. A cambiare è la
sorgente, il presupposto giuridico. La giustificazione ideologica non
si basa più sulla censura, ma sulle necessità del mercato. Tutte le
conseguenti mitologie sul diritto d'autore derivano dallo stratagemma
argomentativo della lobby degli stationers: l'autore è di fatto costretto a cedere i diritti, ma è costretto... per il proprio bene.
I contraccolpi psicologici saranno devastanti, si arriverà a una
variante della "Sindrome di Stoccolma" (l'amore del sequestrato per il
proprio rapitore), autori che si mobilitano in difesa di uno statu quo
che si fonda sul loro stare ai piedi del tavolo in attesa degli avanzi
e di una carezza sulla testa, pat! pat! wuf!
La legge è il celebre "Statute of Anne" - capostipite di tutte le leggi
e gli accordi internazionali sul diritto d'autore, fino alla
Convenzione di Berna del 1971, al Digital Millennium Copyright Act, al
Decreto Urbani et cetera - ed entra in vigore nel 1710. E' la prima
definizione legale del copyright come si è continuato a intenderlo fino
a oggi, o meglio, fino a stamattina, perché dopo mezzogiorno qualcuno
ha cominciato ad avere dei dubbi.
I dubbi derivano dal fatto che oggi la "copia" è possibile a molte più persone, forse a quasi tutti.
Buona parte di noi ha in casa gli eredi domestici delle tecnologie di
cui gli stationers avevano il monopolio. Per fare la copia di un'opera
non è più necessario passare attraverso un ordine professionale. Gli
eredi degli stationers vengono scalzati dalla rivoluzione
microelettronica iniziata negli anni Settanta, dall'avvento del
digitale, dalla "democratizzazione" dell'accesso al computing. Prima la
fotocopiatrice e l'audiocassetta, poi il videoregistratore e il
campionatore, poi il masterizzatore cd e il peer-to-peer, infine le
memorie portatili tipo i-Pod... Come si può pensare che sia ancora
valida la giustificazione ideologica del copyright, quella che diede
forma allo Statute of Anne?
E' chiaro che va tutto rivisto, questo processo cambia faccia, cervello
e cuore dell'intera industria culturale! Occorrono nuove definizioni
dei diritti di chi crea, di chi produce, di chi mette a disposizione.
Se una "opera dell'ingegno" può giungere al pubblico senza la
mediazione di un editore, di un discografico, di produttori televisivi
o cinematografici, sono questi ultimi a dover interrogarsi su come
proseguire, a dover inventarsi qualcosa, a dover ridefinire il proprio
ruolo imprenditoriale e la propria ragione sociale. Cercare di
mantenere con la minaccia della galera un monopolio che non ha più basi
significa imbucarsi in un vicolo cieco, è un comportamento da Ancien
Régime, da autocrazia zarista. Per fortuna qualcuno comincia a
rendersene conto.
3. Google Print e affini: rete, gratuità e battaglie di retroguardia
Google Print, Creative Commons, copyleft etc. sono progetti e
concetti diversi, ma in realtà vanno tutti nella stessa direzione, come
vanno nella stessa direzione biblioteche e librerie. Nelle prime si
accede al libro gratuitamente, nelle seconda lo si acquista, ma non c'è
scontro tra le due opzioni: i paesi dove si vendono più libri sono
anche quelli in cui più si frequentano le biblioteche. E' normale: più
il libro circola, più lo si legge, più ritorno positivo c'è per
l'editoria.
La parola-chiave è proprio "biblioteche". si parla di una lunga
tradizione di gratuità dell'accesso, soltanto di recente messa in
discussione (e la battaglia è ancora in corso). Che si parli di
biblioteche di mattoni o biblioteche di elettroni, sempre biblioteche
sono. Se invece il download è a pagamento, allora si tratta di
librerie, su per giù come quelle che siamo abituati a conoscere, non è
difficile immaginare la modalità di prelievo del diritto d'autore, è
una cosa piuttosto semplice. Detto questo: Seth Godin, uno dei più
grandi filosofi del marketing, dice che se un e-book a pagamento viene
comprato da tot persone, lo stesso e-book, reso gratuito, verrà
scaricato da tot moltiplicato per quaranta.
L'informazione utile si ottiene invertendo il dato: su quaranta persone
che scaricano un e-book gratis, ce n'è una disposta a comprarlo. La
somma di quegli "uno su quaranta" corrisponde allo "zoccolo duro" dei
lettori, quelli che comprano per primi, che fanno partire il
passaparola. Sono i connettori, gli "evangelisti", i buzzers.
Ogni mossa va fatta avendo in testa questo insieme di persone. Godin,
poi, fa così: le nuove uscite (elettroniche e cartacee) sono a
pagamento. Poco prima di una nuova pubblicazione, mette scaricabile
gratis quella precedente. E' una strategia di lancio formidabile.
Il download libero e gratuito di un testo e la sua "navigabilità" in
stile Google Print hanno una finalità comune e ambiscono allo stesso
risultato: entrambi vogliono rendere i prodotti culturali accessibili
on line, e questo può favorire la vendita di libri.
Gli editori che si oppongono a Google Print sono come quegli studios
cinematografici che, venticinque anni fa, denunciarono i produttori di
videoregistratori e videocassette, dicendo che la registrazione
domestica violava il copyright. Il famoso caso "Universal contro
Betamax".
La Universal arrivò fino alla Corte Suprema e perse... per fortuna sua.
Negli anni a seguire, l'industria cinematografica ha realizzato la
maggior parte dei suoi profitti non nelle sale ma grazie all'home
video. E' sopravvissuta alla crisi delle sale grazie al VHS e poi al
DVD. Se Universal e compagnia avessero vinto, a quest'ora sarebbero
morti e sepolti. Ma hanno perso, e quindi si sono salvati.
Si potrebbe citare anche l'assurda battaglia dei discografici contro
l'introduzione sul mercato delle musicassette, negli anni '70, preludio
alla guerra senza quartiere contro il download, quando (iTunes lo ha
dimostrato) bastava fornire agli utenti un canale di accesso legale a
questa risorsa.
Anche questa degli editori è una battaglia suicida contro
un'innovazione potenzialmente vantaggiosa. Per il loro bene, gli
editori devono perdere. Vincendo, si assesterebbero una formidabile
martellata nei cosiddetti.
*stralci di corrispondenza privata e risposte a interviste inedite in italiano.
www.wumingfoundation.com
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